
Ce la riferisce Cipriano, vescovo di Cartagine tra il 248 e il 258, santo martire e padre della Chiesa. Cipriano sosteneva che la tunica di Gesù fosse realizzata senza cuciture e tessuta con un unico filo, com’erano le tuniche dei sommi sacerdoti giudei. Così il vescovo di Cartagine immaginava che anche la Chiesa fosse un unico filo che parte da Dio e arriva agli uomini per mano di Gesù. Gli uomini prendono quel filo e cominciano a portarlo ovunque nel mondo, avviluppandolo tra migliaia di chiese e tra milioni di persone. Eppure, per quanto ormai inestricabile, è pur sempre lo stesso filo ininterrotto, riavvolgendo il quale, se solo fosse possibile, potremmo in ultimo tornare a Dio stesso.
Perché vi abbiamo raccontato questa storia? Perché ci è tornata in mente pesando a quella che è ormai nota come la pasta più rara del mondo: “su filindeu”, i “fili di Dio”, appunto. La preparano a Lula, paesino dell’altopiano nuorese, a 521 metri sul livello del mare. Il problema è che a prepararla sono ormai rimaste soltanto tre persone, le uniche e le ultime a conoscere la tecnica plurisecolare necessaria per realizzare questo mirabile artefatto culinario. Ma di che si tratta, esattamente? Sostanzialmente, di un impasto a base di farina di semola, acqua e sale, tirato e la vorato in modo da ricavarne fili sottili quanto capelli. Questi lunghi filamenti vengono poi stesi in tre strati sovrapposti su un canestro circolare di foglie essiccate di asfodelo. Ogni strato di fili è incrociato rispetto a quello sottostante così da formare un fittissimo reticolo, più simile alla trama di una stoffa che a qualunque cosa vi sia mai capitato di mangiare da un piatto. Questo sconcertante lavoro di cucina quantistica è infine messo ad asciugare ed essiccare al sole, finché non diventi un unico disco rigido, che verrà spezzato solo al momento di cuocerlo in brodo di pecora e poi servito con una generosa spolverata di pecorino sardo.
I fili di Dio: in realtà, come ci ha spiegato Cipriano, si tratta del medesimo filo che passa di luogo in luogo, di generazione in generazione, come il sottile testimone di un nostro remoto legame con il divino. In fondo, i filindeu mostrano fino a che punto questo legame possa complicarsi e stratificarsi in infinitesimali geometrie tra le quali il minimo che possa capitarci è smarrirci. Come ritrovare allora il bandolo della matassa? Come uscire da questo labirinto che insieme ci lega e ci allontana dalla nostra fonte? Da Lula, a 521 metri sul livello del mare, ci pare che venga la soluzione forse più convincente al grattacapo: senza nemmeno provare a cercare la via per uscire dal labirinto, meglio mangiarcelo, meglio scioglierlo e assimilarlo in noi.