
Berchidda: un paese dell’entroterra sardo, in provincia di Olbia-Tempio, nemmeno 3000 anime insediate a 300 metri sopra il livello del mare, ai piedi della catena del Limbara che, con punta Sa Berritta, raggiunge la quota massima di 1362 metri. Temperatura media: 15 gradi. Piuttosto umido, per via del vicino lago Coghinas, tanto che in certi giorni dell’anno Berchidda si trova avvolta da un nebbione ideale per vedere cose che non esistono e per non vedere quelle che invece esistono.
È da qui che viene uno dei maggiori jazzisti italiani, Paolo Fresu, e, soprattutto, è qui che torna sempre, dopo i suoi lunghi giri intorno al mondo per inseguire la musica che è già nel mondo e che la sua tromba è in grado di catturare viva, per poi liberarla subito dopo, finalmente udibile a tutti. Quando gli hanno chiesto il momento in cui aveva capito di aver realizzato il proprio sogno, Fresu ha risposto che è stato quando gli abitanti del suo paesino hanno cominciato a chiedergli, di ritorno dai suoi viaggi, com’era andata e, soprattutto, quando sarebbe partito di nuovo. È stato allora che ha capito di essere diventato un musicista.
Non la trovate una risposta bizzarra e spiazzante? Vi chiedono quando avete capito di essere diventati dei musicisti, e voi non rispondete cose del tipo: quando ho fatto il mio primo concerto, quando ho inciso il mio primo disco, quando è uscita la prima recensione sul mio lavoro. No, piuttosto rispondete che l’avete capito dalle domande dei compaesani intorno ai vostri viaggi, intorno alle vostre partenze e ai vostri ritorni. Che senso ha precisamente una risposta del genere?
È probabile che Fresu si riferisse a quanto c’è di sognante e divagatorio in domande del genere. Bisogna infatti considerare l’esistenza di una figura assai meno prosaica di quanto sembri. La figura di chi resta. C’è chi resta per tutta la vita nel paese in cui è nato: individuo quasi indistinguibile dalle radici che lo nutrono, costui avrà una famiglia, degli amici, un lavoro e, in ultimo, una tomba nella stessa terra in cui ha trascorso ogni giorno della propria esistenza. Chiusa la pratica, sarà diventato parte del paese e della sua storia quasi in senso geologico, come Sa Berritta fa parte dell’orizzonte di Berchidda.
Chi resta, cioè chi resta in questa accezione particolarmente forte, si attarda sempre con chi ha invece per destino il partire. Ecco che lo ferma con un sorriso vorace per chiedergli un racconto, un episodio, un dettaglio e, soprattutto, per sapere quando dovrà ripartire. Ma cosa gli sta chiedendo con esattezza? Gli sta chiedendo di prestargli per un momento gli occhi, attraverso i quali vedere cosa c’è oltre i monti o nella nebbia, quando tutto si confonde e non sai nemmeno più dove ti trovi. Gli sta chiedendo la materia immaginaria con cui formulare propositi tanto vaghi e includenti, quanto per lui preziosi e consolatori tipo: “Un giorno anch’io…”, “Quando rinascerò…”. Propositi che non servono a partire, bensì a restare, attenuando gli inconvenienti legati a un destino per lo più stanziale.
Ecco perché Fresu ha capito da questo particolare d’essere diventato il musicista che sognava di essere. Cos’è, infatti, un artista se non un prestatore di occhi? Uno che viaggia al posto nostro per portarci i tesori che ha rinvenuto durante navigazioni che noi non sapremmo mai intraprendere da soli? Chi è, in particolare, Paolo Fresu se non un musicista capace di forzare con la sua tromba nitida e dettagliata i confini entro i quali ci troviamo, così da farci dilagare a occhi chiusi in nuovi territori della rappresentazione e dell’immaginario? Il ritorno è il dono generoso e grato di chi parte per chi resta. La musica di Fresu è questo costante ritorno dovuto a questo instancabile ripartire.