
Il termine “seada” pare che venga proprio da questo participio passato spagnolo. Cos’è infatti la seada? Un raviolone di sfoglia di semola sarda nutrito di formaggio fresco di pecora e cosparso di zucchero a velo o miele fuso.
Questo piatto così ben nutrito, a sua volta, ci nutre in abbondanza. Ci nutre e ci delizia. Ci fa crescere sani, forti e capaci di nutrire a nostra volta la realtà, per renderla più vigorosa, più adatta a contenere le idee di cui la farciamo come, appunto, una seada fatta a mano. Anche il vecchio Catone conosceva un piatto simile alle seadas e, non a caso, lo chiamava “placenta”. Le seadas sono proprio questo: l’involucro che racchiude e nutre la promessa di un mondo finalmente morbido.
In realtà, la loro ricetta è soggetta a sensibili variazioni a seconda dei luoghi. Del resto, se qualcosa rappresenta davvero un territorio, allora sarà per forza vario e molteplice quanto il territorio che rappresenta. Di conseguenza, potrete sentirla chiamare: “seatta”, “sevada”, “sabada”, “casgiulata”. Dentro potrete trovarci, al posto del più diffuso formaggio di pecora, del formaggio ovino lasciato inacidire per qualche giorno. Potrà capitarvi di assaggiarne anche la versione salata. Potrete, infine, gustare la cosiddetta “seada a sa mandrona”, ossia “pigra”, perché fatta con formaggio crudo, e non cotto.
La seada è diffusa un po’ ovunque in Sardegna (e ormai anche fuori) ma, se vorrete mangiare quelle veramente artigianali, allora sarà meglio che vi facciate un giro nelle zone in cui la pastorizia è ancora la principale fonte economica. Si tratta, infatti, di un piatto legato principalmente a quel mondo: un mondo duro e aspro, che si cosparge di miele per addolcirsi e serba gelosamente al proprio interno quanto di morbido possiede, per difenderlo dai rudi assalti della realtà.