
Per i cagliaritani è una vera forma di dipendenza, un elemento identitario, un alimento idealistico. Niente di complicato: due dischetti di pasta sfoglia uniti insieme e farciti, secondo la ricetta classica, di pomodoro, capperi e, talvolta, acciughe. Eppure, a dispetto della sua semplicità, sul continente non si trova. Ma sull’isola sì, dove questo piccolo totem alimentare ha finito per diffondersi da Cagliari un po’ ovunque. Alghero, naturalmente, non fa eccezione. Immancabile nei bar, si mangia anche a colazione, senz’altro è perfetto per l’aperitivo (lo era già prima che l’aperitivo divenisse esattamente il rito sociale che è oggi), e comunque è uno snack adatto a ogni momento della giornata.
È forse proprio questo, a nostro avviso, l’aspetto che fa della pizzetta sfoglia una vera istituzione sarda: la sua trasversalità temporale. Non si mangia per riempire lo stomaco, bensì il tempo. È una di quelle innocue risorse con cui colmiamo le lacune tra un evento e l’altro, momenti privi di nome e volto che passeranno senza mai più tornare, né nel ricordo né in sogno. Ma è proprio a questa sterminata processione d’istanti grigi che dobbiamo l’amaro insegnamento per cui la vita passa, non resta. E allora, una pizzetta sfoglia potrà, se non altro, insaporire l’attimo sciapo, colorare l’orizzonte scialbo che non porta notizie di vele. Come non esserle teneramente grati?
Non stupitevi, dunque, se il pensiero di questo semplice alimento sia in grado di provocare vere fitte di nostalgia nei sardi che si trovino, per qualunque ragione, lontani da casa. Il sogno che un fenicottero rosa, di passaggio sul continente, deponga col suo becco obliquo una pizzetta sfoglia sul davanzale della loro dimora peninsulare è forse quanto di più squisitamente sardo le menti più originali di questa terra siano in grado di concepire al mattino presto, perse come ombre tremule nella bruma del Lungo Po torinese.