
Sì, diciamolo pure. È un po’ questo. Intendiamoci, niente di male: concederci di tanto in tanto una sana dose di superficialità, abbandonarci per una volta alla superficie delle cose è un modo per non trasformarci in quelle brutte creature degli abissi, che per vivere solo in profondità hanno finito per sviluppare un aspetto orribile e deforme.
Sì, però, c’è modo e modo di divertirsi. Per esempio, sabato e domenica scorsi si è tenuta nella nostra bella Piazza Civica l’ottava edizione di “Poesia a strappo” e, pensate un po’, il pubblico intervenuto, nonostante di mezzo ci fosse la parola “poesia”, s’è perfino divertito! Ma a cosa è stato dovuto questo misterioso fenomeno?
Al fatto, appunto, che “Poesia a strappo” non è un’iniziativa culturale degli abissi, non è paludamento, non è sprofondamento. Se appendi delle poesie a dei pannelli in piazza e fai in modo che chiunque, passando, possa leggerle e, in caso, strapparle dal pannello e portarsele via, capisci che hai sottratto la poesia al sancta sanctorum della cultura, per restituirla agli immediati bisogni di casuali esistenze in cammino.
In conclusione, “Poesia a strappo” ha la stessa corroborante lievità del vento che sabato e domenica, in Piazza Civica, agitava i fogli come tante bandiere bianche, segno che di combattere proprio non ci va più: meglio leggere, riflettere, tentare di stare insieme. “Poesia a strappo” unisce alle benefiche proprietà intellettuali universalmente riconosciute all’arte poetica il piacere sottile e vagamente perfido dell’appropriazione. Si tratta, dopotutto, del più letterario ed eccitante degli istituti giuridici, quello che i giureconsulti romani chiamarono “inventio thesauri”, cioè la scoperta di un tesoro.