
Giammai! Tanto meno se un giorno vi capitasse d’inoltrarvi per i pascoli del Montiferru, questo imponente diffusore a cielo aperto d’essenze quali camomilla e mirto. Allora, niente di più facile che possiate imbattervi nel nostro solenne bue rosso, intento a brucare i prati che, come vasti tappetti, si stendono nel reticolo di colate laviche rapprese più di un milione e mezzo d’anni fa.
Sfinge dallo sguardo sardonico e distaccato, come fosse scolpito in legno pregiato, un tempo il bue rosso era un ricercato compagno di lavoro nei campi, per via della sua straordinaria muscolatura e della sua eccezionale resistenza alla fatica. Ma soprattutto, era desiderato per la sua carne squisita, sapida, magra, genuina. Erano i nostri cugini francesi a chiederla di più. Poi, negli anni Cinquanta e Sessanta, il consumo di carne si è massificato e altre razze straniere, più abbondanti e più a buon mercato, hanno finito per imporsi. Da allora, l’allevamento del bue rosso è fortemente diminuito e oggi si contano poco più di 3000 capi, tutti allevati allo stato brado, sia d’inverno che d’estate.
Di fatto, dunque, soltanto qui in Sardegna potrete provare questa carne tanto gustosa quanto genuina, e potrete provarla in diversi modi: come petza in brou, profumata con erbe selvatiche e bollita, oppure come petza arrustia, arrostita su uno spiedo sistemato accanto al fuoco. Ma è ottimo anche il ghisau, cioè lo spezzatino di bue rosso, per tacere poi delle golosissime bombas, polpettine fritte o in brodo. Ma non è solo un fatto di cibo, c’è anche la bellezza di questa bestia unita a quella del posto in cui vive libera per tutto l’anno: “e del grave occhio glauco entro l’austera / dolcezza si rispecchia ampio e quieto / il divino del pian silenzio verde”. Il vecchio Carducci… sarebbe da rileggere un po’.