
In Oriente, durante i primi secoli del cristianesimo, alcuni lo celebravano il 20 maggio, altri il 20 aprile, altri ancora il 17 novembre. In Occidente, c’era chi lo festeggiava il 28 marzo. Fu solo intorno alla metà del IV secolo che si fissò la data del 25 dicembre, corrispondente secondo i Romani al solstizio d’inverno. Ciò significa che, tutto sommato, il Natale fra quelle cristiane non è certo la festività più antica. Ben altra urgenza teologica aveva naturalmente la Pasqua. Del resto, tuttora per la Chiesa ortodossa il Natale si festeggia il 6 gennaio, il giorno dell’Epifania.
Ma perché questa premessa? Semplicemente per riscattare il Natale dalla percezione che mediamente ne abbiamo quale di ricorrenza ineluttabile, inscritta nelle cose stesse, implicita nell’alternarsi delle stagioni, quasi si trattasse di un fenomeno naturale, di una circostanza metereologica. Invece, come abbiamo visto, in origine nemmeno era chiaro in quale giorno esattamente cadesse, né si trattava della festa più sentita. Per diversi secoli le cose andarono in questo modo e chissà se qualcuno, esasperato dalla frenesia dei regali e dal traffico paralizzato, non vorrebbe che tornassero a essere così.
Mettiamo subito in chiaro che noi non lo auspichiamo, che per niente al mondo saremmo disposti a rinunciare al Natale per come oggi lo conosciamo e viviamo. Se c’è un auspicio da fare, è piuttosto quello di attingere al senso originario del 25 dicembre come del giorno a partire dal quale la vita del sole torna lentamente ad allungarsi e la luce inizia la propria inesorabile riscossa sulle tenebre. “Sorgerà per voi il Sole di giustizia” profetizzava Malachia (14, 2). Sia, dunque, questo il nostro più sentito augurio per tutti voi, per tutti noi.