
Non che di tale materiale siano fatti i nostri cuori (e come potrebbe essere, se non altro per l’ormai prossimo Natale?!). Piuttosto, chi anche solo vagamente conosca la Sardegna saprà che qui non è solo una questione di mare, ma anche di terra e roccia. È il modo unico in cui questi due elementi dialogano tra di loro e occupano l’essenza stessa dell’isola, a fare della Sardegna, appunto, la Sardegna. Un esempio in tal senso perfetto è Porto Flavia.
Infrastruttura dell’area mineraria di Masua (Iglesias), letteralmente incastonata sul fianco scabroso di una montagna a picco sul mare, Porto Flavia rappresenta in senso proprio e stretto come nella nostra terra la pietra anela al mare e viceversa. Il singolare impianto fu realizzato nel 1924 su progetto dell’ingegnere veneziano Cesare Vecelli: questi veneziani… altra gente che sa bene come far galleggiare la pietra sull’acqua! Diciamo subito che all’epoca costituì motivo di progresso economico e di miglioramento delle pessime condizioni di vita dei minatori. Mentre prima erano gli uomini a doversi incollare i materiali scavati in miniera per trasportarli a mano fino a piccole imbarcazioni dette bilancelle, con Porto Flavia i minerali venivano imbarcati direttamente dall’alto attraverso un apposito nastro trasportatore. Ciò, chiaramente, riduceva la fatica e aumentava la resa economica, ma dal nostro punto di vista vogliamo sottolineare soprattutto che doveva essere uno spettacolo davvero impressionante il modo in cui la montagna sembrava, attraverso ingegnosi meccanismi rotanti, svuotarsi pezzo a pezzo in mare per salpare e trasferirsi altrove.
A partire dal secondo dopoguerra, l’industria estrattiva (per motivi che qui sarebbe troppo lungo affrontare) declinò in maniera inesorabile. Di conseguenza, anche Porto Flavia smise progressivamente di funzionare, fino a cadere in completo disuso. Appena abbandonate, simili strutture decadono, si ripiegano su se stesse: perso lo scopo primario per cui erano state ideate e costruite, avvizziscono e si corrompono. Poiché il senso che le aveva portate all’essere è smarrito, tornano a non esistere, nascondendosi in qualche piega di una sorta di potente oblio collettivo. Poi, per fortuna, con il passare del tempo, con l’elaborazione del lutto, con una maggiore comprensione di sé e del proprio passato, si torna a ripensare simili spazi, si torna a dar loro uno scopo e un senso, diversi da prima ma ugualmente efficaci ai fini del loro ritorno alla vita. Così è successo anche per Porto Flavia: la stagione mineraria della ragione è stata finalmente storicizzata a sufficienza, e si è pensato che l’impianto potesse esserne un monumento tanto affascinante quanto eloquente.
Dopo anni di diligente restauro, oggi Porto Flavia è di nuovo visitabile e starci dentro dà veramente i brividi: per l’esorbitante paesaggio in cui è integrato, per l’eco storica che non smette ancora di percorrere e percuotere quelle mura, per la solennità che ora ci trasmette ciò che un tempo era il ventre stesso di un proletariato abituato a soffrire e a morire. Vedendolo dal mare, potrebbe a tutta prima apparirvi come la stravagante abitazione di un qualche romantico ottocentesco in cerca di sublimità a picco sul mare. A mano a mano che vi avvicinerete, verrà invece sempre più precisandosi il senso di una reliquia industriale, di una architettura inscritta nel profondo dell’essenza sarda.