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Il faro di Capo Caccia e i guardiani immaginari

186 metri sul livello del mare: è questa la quota massima cui arriva il faro di Capo Caccia, il faro più alto d’Italia.

186 metri sul livello del mare: è questa la quota massima cui arriva il faro di Capo Caccia, il faro più alto d’Italia. Una costruzione squadrata e massiccia risalente al 1864, una gabbia di Faraday a prova di fulmine, un carapace di pietra a prova di burrasca, che si affaccia senza vertigine sullo strapiombo del promontorio. Un occhio sempre aperto, che ogni cinque secondi manda un lampo visibile fino a 34 miglia di distanza: assistere la navigazione è un lavoro insonne e cocciuto, significa funzionare anche quando nessuna nave è in vista e i segnali inesorabili si smarriscono nel nulla inabitato del mare notturno.
Ma che il faro stia sempre lì, che funzioni con il bello e il cattivo tempo, che non possa mai spegnersi è motivo di conforto, perché sentirci protetti e guidati presuppone una sorta di automatismo, richiede che ci sia qualcun altro a pensarci per noi, che sia come una premessa scontata su cui non bisogna darci pensiero di tornare continuamente. È questo che pretendiamo da un guardiano del faro, è questo che poi condiziona la sua vita e le conferisce la sua unicità, la sua ideale solitudine insonne.
Usiamo il termine “ideale” perché nei fatti può non essere così. E nei fatti il guardiano del faro di Capo Caccia, il genovese Luigi Critelli, vive nel casamento del faro insieme a sua moglie e ai suoi figli. Insomma, ha una normale vita familiare, per quanto possa risultare difficile figurarsi serene scene domestiche a strapiombo sul mare, quando quest’ultimo infuria e sembra voler sgretolare le fondamenta stesse del mondo. Inoltre, il suo è un lavoro molto più movimentato e molto meno solitario di quanto ci vien fatto d’immaginare. Non si tratta, infatti, di starsene tutto il tempo da solo nella torre a badare al lume (che oggi, peraltro, è assistito da sofisticata tecnologia). Luigi ha anche due colleghi che lo assistono e il loro compito è tenere in efficienza non soltanto il faro di Capo Caccia, ma anche tutti gli altri segnali costieri fino a Bosa Marina e a Porto Conte.
Eppure, sebbene i fatti appena riportati sembrino smentire l’immagine ideale del guardiano, è nella nostra natura non rassegnarci facilmente a sottostare ai fatti bruti che, per essere fatti, sono soltanto circostanze, accidenti, perturbazioni superficiali di una massa nel suo profondo immobile, invariante. Pertanto, resta ancora ferma l’idea del guardiano prometeico che tiene le navi lontane dagli scogli, dell’uomo che c’è, che c’è comunque, che c’è anche quando il suo esserci non dipende dal fatto che qualcuno a questo mondo stia pensando che lui ci sia.

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